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God seiv de Quin!

Gli italiani almeno trentenni molto probabilmente ricorderanno una pubblicità degli anni ’90 di un corso di inglese in VHS venduto settimanalmente nelle edicole. Durante lo spot a un certo punto un ragazzino sui 14 anni, rivolto al televisore, esclamava: “I’m ready to start!”, seguito dal padre che con un sorriso a circa 76 denti lo incoraggiava: “Yes, I’m ready too”. O meglio Ies, aim redi tu.

Sì, perché questa pubblicità a tutto faceva pensare tranne al fatto che seguendo quel corso si sarebbe poi parlato un inglese perfetto.

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Ricordo che allora, più o meno adolescente, mi dannavo tremendamente davanti a questa esaltazione di una pronuncia davvero sgradevole e marcatamente italiana di una lingua che italiano non era. Non mi ero ancora resa conto che, in realtà, quello sarebbe stato poi lo standard nazionale di un inglese che nei curricula viene sempre associato ad un livello avanzato (vedo C1[1] come se piovessero…).

Il problema è che la pronuncia da Totò e Peppino è solo la punta di un gigantesco iceberg di errori (grammaticali, sintattici, lessicali…) a cui pochi sembrano dare la giusta importanza. Ovviamente la questione non è solo italiana, ma copre buona parte del territorio europeo (fatta eccezione per pochi paesi nordici) e si estende su tutti i continenti.

Probabilmente a supportare questa trascuratezza nell’esprimersi in un’altra lingua vi è il fatto che “tanto si capisce cosa voglio dire”, con buona pace dei linguisti e dei madrelingua.

20181002_132036.jpgVi è, inoltre, un uso sconsiderato di programmi di traduzione online, primo fra tutti il famigerato Google Translator.

Lungi da me il voler criticare questo strumento, vorrei solo mettere in guardia chi non ha grande dimestichezza con le traduzioni e, in generale, con le lingue straniere.

Il traduttore di Google, infatti, può essere un valido aiuto nella traduzione a mio avviso solo per quelli che hanno una buona conoscenza della lingua meta (la lingua in cui si vuole tradurre il testo). E non perché ti dia la soluzione esatta, ma perché, a volte, quando ti trovi bloccato in un’odiosa aridità mentale dalla quale non riesci ad uscire neanche dopo tre caffè, un giro in bici, una lettura stimolante ed un cannolo (il mio sogno è che un giorno i cannoli siciliani vengano scientificamente riconosciuti come validi stimolanti cerebrali), Google Translator (suo malgrado) potrebbe fartela venire in mente.

E nel caso in cui proprio non riusciate a tradurre un testo, rasserenatevi. Avete la soluzione a portata di internet, telefono, e-mail: esistono centinaia di migliaia di traduttori professionisti specializzati proprio in quel campo che serve a voi (fosse anche la depilazione laser della zona dietro il ginocchio).

Affidatevi a chi questo mestiere lo fa con voglia e passione (e guardate i film in lingua originale che vi fa bene!).

[1] Secondo lo schema di valutazione del Quadro comune europeo di riferimento, per il quale il livello di conoscenza di una lingua straniera può essere suddiviso in sei gruppi: A1, A2, B1, B2, C1, C2). v. https://it.wikipedia.org/wiki/Quadro_comune_europeo_di_riferimento_per_la_conoscenza_delle_lingue
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“Sólo tienes que copiarlo en inglés”…

… ovvero della svalutazione della traduzione.

I primi certificati di lingua, una Laurea, un Master, anni di esperienza in tre continenti, per poi sentirti dire un giorno “Devi solo copiarlo in inglese”. Il tutto mentre, alla guida di un dipartimento di otto persone (traduttori e interpreti) di una clinica privata, stai cercando di far quadrare un cerchio deforme consistente in: consegne al limite della scadenza, colleghi con manie di persecuzione, infermiere che credono nel dono dell’ubiquità (la tua, si intende) e medici sedicenti poliglotti che, però, giusto quel giorno (e circa altri 360 giorni all’anno) hanno assolutamente bisogno di una traduzione urgente per il giorno stesso.

La frase in questione venne pronunciata da una, peraltro molto gentile, impiegata della segreteria medica che entrò in ufficio con un testo da tradurre in mano. Tradurre, appunto. E altro non era che la risposta a un paio di domande da me poste, cioè: quanto è lungo il testo? Per quando vi serve?

Tutto avrei immaginato, tranne di sentirmi svelare, proprio quella mattina, apparentemente molto simile alle altre, il segreto dell’essenza del tradurre.

Al di là del desiderio, dettato dall’ira, di tirarle addosso i suoi fogli, insieme a quelli dei medici di cui sopra e (perché no?) qualche sedia, quella sua risposta mi portò, ovviamente, ad un forte senso di frustrazione, ma anche alla consapevolezza che agli occhi di molti, moltissimi, la traduzione altro non è che un mero atto “meccanico”: leggi in una lingua, scrivi in un’altra.

Cosa ci sarà mai, dunque, di così complicato da tenerti ore su una stessa parola, da farti venire crisi d’identità per non essere capace di trovare il termine giusto nella tua stessa lingua materna, da farti dubitare di tutto il tuo percorso accademico (E se mi fossi dedicata alla biologia?) ? Cosa?

“Sono perfettamente consapevole dell’arte, della diligenza, dell’intelligenza e della comprensione necessarie per essere un buon traduttore” scriveva Martin Lutero nella sua “Epistola sull’arte del tradurre” del 1530.

E qualche secolo dopo Umberto Eco si chiedeva: Che cosa vuol dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire cosa significhi “dire la stessa cosa”, e non lo sappiamo bene per tutte quelle operazioni che chiamiamo parafrasi, definizione, spiegazione, riformulazione, per non parlare delle pretese sostituzioni sinonimiche. In secondo luogo perché, davanti a un testo da tradurre, non sappiamo quale sia la cosa. Infine, in certi casi, è persino dubbio che cosa voglia dire dire” (“Dire quasi la stessa cosa – Esperienze di traduzione”, 2003).

Le citazioni che mettono in evidenza le difficoltà quotidiane e costanti cui fa fronte un traduttore sono innumerevoli (per fortuna!).

Ciò non toglie che all’atto pratico ci si stupisca ancora che esista un percorso di studi specifico per la traduzione, che i traduttori vogliano lavorare in media 8 ore al giorno (possibilmente non tra le 2 e le 5 del mattino) e guadagnarci anche qualcosa.

L’uso di Google Translator e l’inglese ormai apparentemente conosciuto da tutti (God save the Queen and her language!) mettono sulla frustrazione il carico a briscola. Ma di questo parlerò nel prossimo articolo.

 Per chiudere, ritorno ad Umberto Eco, perché tradurre, comunque, resta per me uno dei lavori più belli.

“Tradurre infatti vuol dire starsene a casa, al caldo o al fresco, e lavorare in pantofole, oltretutto imparando un sacco di cose.” (“Numero Zero”, 2015)