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Libero professionista, Lingue straniere, Traduzione

Fermi tutti!

No, questa non è una rapina, ma una semplice constatazione.

Sì, perché, a meno che non si lavori in un ospedale, un supermercato ed in pochi altri posti, siamo tutti fermi da ormai diverse settimane, a seconda della nazione in cui si vive.

Qui in Spagna el estado de alarma è entrato in vigore il 14 marzo, ma già dal giorno prima, quando è stato annunciato, eravamo più o meno tutti chiusi in casa. Per adesso è stato esteso fino all’11 aprile, ma, come sappiamo, le previsioni al momento sono tutt’altro che rosee.

Adesso, diciamoci la verità, non è che la vita del traduttore freelance sia costellata di rapporti sociali, eventi e riunioni. Anzi, per trovare le differenze con la mia vita quotidiana pre-coronavirus bisogna aguzzare la vista come nella Settimana Enigmistica. È pur vero, però, che non vivo sola e che, dunque, questo periodo sta forzando in qualche modo la convivenza con gli altri tre coinquilini di questa casa (Alicina, la mia gatta, non entra nel conteggio, essendo comunque abbastanza discreta).

Ma andiamo per ordine:

  • Mio marito: sì, certo, quando c’è l’amore, c’è tutto. Ma quando sei abituata ad avere ogni mattina tutta la casa per te e, da un giorno all’altro, “tutto per te” ti rimane soltanto un metro quadrato in bagno se ti chiudi a chiave, pure il più bello dei rapporti potrebbe incrinarsi (per non dire che si frantuma a giorni alterni in mille pezzi che poi si rimettono miracolosamente insieme in uno splendido collage, magari con qualche pezzetto al posto sbagliato). Diciamo, dunque, che per sopravvivere in un’armonia media con picchi di felicità e di malumore, basta lasciarsi i propri spazi (non solo in bagno): io ho il mio rifugio-ufficio e lui… ecco, lui… insomma, anche lui trova sempre un momento per sé, tranquilli, solo che la mia stanza-ufficio è mia mia, tutta mia.

Nell’equilibrio, o forse nel non-equilibrio, del rapporto con mio marito hanno, ovviamente, un ruolo da protagonisti i nostri pargoli. E quindi…

  • Mio figlio: in casa dal 13 marzo, è il vero eroe di questa storia. Sei anni e mezzo e i pomeriggi sempre pieni di attività extra-scolari: teatro, piscina, musica, terracotta (che qui si chiama fang, che rende più l’idea delle condizioni in cui rientra a casa ogni venerdì). In più ama giocare a tennis e andare in bici. Cosa gli è rimasto al momento di tutto ciò? Mamma, papà e sorella! Yuppi! Devo dire che se li fa anche bastare e gioca come può, studia come può (con il super orario confezionatogli dalla mamma in versione maestra), fa sport come può (benedetto sia il nostro giardino, seppure non superi i 70 metri quadrati).
  • Mia figlia: suppongo che ogni tanto si chiederà che fine abbiano fatto quella signora tanto simpatica e quegli altri esseri piccolini, mediamente informi, incapaci di parlare e grandi produttori di muco con cui trascorreva le mattine fino a qualche settimana fa. Ma, obbiettivamente, vuoi mettere avere a disposizione mamma, papà e fratello e far fare loro tutto quello che vuoi, pena grida acutissime e pianti esagerati? Unica nota negativa: ha imparato a camminare da sola il 12 marzo. Eh, no, Cicilla, hai scelto il momento sbagliato per decidere di esplorare il mondo coi tuoi piedini.

A parte la situazione in casa della quale, comunque, non oso lamentarmi, questo momento è reso particolarmente difficile per la (quasi) totale assenza di lavoro.

E sì, perché se siamo tutti fermi, sono fermi anche i miei clienti.

Così come in Italia, anche in Spagna il Governo approva giornalmente nuove misure per contenere gli effetti nefasti di questo blocco economico dove, ça va sans dire, i più colpiti sono ovviamente gli autónomos.

In questo momento, dopo aver studiato per benino queste misure, pare che io abbia diritto a 3 pacche sulle spalle, 1 “vedrai che presto si ricomincia” e 4 caramelle gommose (senza lo zucchero sopra). Perché per poter accedere alla prestazione per cese temporal de actividad, una sorta di assegno di disoccupazione per liberi professionisti, devi poter dimostrare che il tuo fatturato dell’ultimo mese è inferiore al 75% della media dei sei mesi precedenti.

Il 75%, sì. Come se il 50% non bastasse a sconvolgere la mia vita economica. E, indovinate un po’, non arrivo a questo 75% per meno di 40 euro lordi. Quindi, pazienza, mi tengo le pacche sulle spalle e vado avanti.

Vado avanti lavorando a grandi progetti che mi entusiasmano, che spero si tramutino in realtà entro la fine dell’anno e che possano presto tornare a impegnare freneticamente le mie giornate.

Faber est suae quisque fortunae, dicevano. E noi ci proviamo.

P.s. Per scrivere queste quattro righe, ho impiegato almeno cinque giorni. Lo chiarisco nel caso in cui qualcuno mi immaginasse tranquilla, al mio computer, con una tazza di tè, leggendo Proust. No, i compiti, i disegni, i pannolini, le costruzioni e le tagliatelle di nonna Pina sono sempre in agguato.

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Libero professionista, Traduzione

Quando il cliente non paga

Siamo sinceri: se potessimo non lavorare 5 giorni su 7 e impiegare queste 40 ore settimanali a coltivare le nostre passioni, pisolini inclusi, non ci penseremmo due volte, è chiaro. Altrimenti, non esisterebbero Lotteria Italia, Superenalotto e Gratta e vinci (ma “vinci” quando?).

Purtroppo, però, la maggior parte di noi è obbligata a lavorare per guadagnare qualcosa. Perché di questo si tratta: lavori e, in cambio, il tuo datore di lavoro ti paga uno stipendio a fine mese.

Nel caso in cui tu sia un libero professionista, un autónomo qui in Spagna, lavori, emetti la fattura corrispondente, la invii al cliente e aspetti fiducioso che entro dei tempi ragionevoli il cliente paghi ciò che è dovuto.

Il ragionamento fila, no? No, evidentemente no.

Perché, sebbene fortunatamente la maggior parte dei clienti rispetti in linea di massima, settimana più settimana meno, la scadenza della fattura, esiste una buona fetta di clienti che, probabilmente, credono che tu faccia il tuo lavoro per hobby e che in realtà di quei soldi puoi anche fare a meno. O che, comunque, per te sia la stessa cosa ricevere il pagamento a un mese dalla consegna del lavoro o a un semestre da questa.

Peccato che nel frattempo tu per quelle fatture non pagate stia versando le tasse e che al padrone di casa, al quale scrupolosamente versi la somma dovuta ogni santo mese, interessi pressocché nulla dei tuoi clienti morosi.

Dunque, cari clienti, sappiate che ritardare di diversi mesi un pagamento ad un autónomo compromette, a volte anche seriamente, la sua vita quotidiana, perché questa persona, non essendo un’azienda, nella maggior parte dei casi, lavora, appunto, autonomamente. Non bisogna certo essere Mago Merlino per riuscire ad immaginare che, avendo lavorato per voi circa due/tre settimane in un mese, non può aver emesso molte altre fatture per quel periodo. Se voi, quindi, ritardate senza scrupoli il pagamento, probabilmente lo state lasciando senza entrate, ma sempre con due figli a carico, un affitto da pagare, bollette a volontà e “anche quest’anno andremo dai nonni in Sicilia l’anno prossimo” (ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti e a me prossimi è del tutto casuale, per carità!).

Come fare, dunque, a sopravvivere?

Ecco, adesso è quando scoprite che questo non è uno di quei blog che dispensano consigli, ma, piuttosto, una richiesta d’aiuto.

In ogni caso, tre cose possono risultare utili ai fini della sopravvivenza:

  1. La cara vecchia santissima pazienza
  2. Qualche risparmio sfuggito ai saldi e alle promozioni di ibs.it
  3. Ricordare con stile ai tuoi debitori che quel pdf in allegato contenente qualche numero non era spam

In realtà, però, ciò che davvero funziona in questi casi è andare alla ricerca di clienti nuovi, sperando, così, di poter abbandonare i vecchi scrocconi.

Perché bisogna sempre ricordare che siamo liberi e professionisti.

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God seiv de Quin!

Gli italiani almeno trentenni molto probabilmente ricorderanno una pubblicità degli anni ’90 di un corso di inglese in VHS venduto settimanalmente nelle edicole. Durante lo spot a un certo punto un ragazzino sui 14 anni, rivolto al televisore, esclamava: “I’m ready to start!”, seguito dal padre che con un sorriso a circa 76 denti lo incoraggiava: “Yes, I’m ready too”. O meglio Ies, aim redi tu.

Sì, perché questa pubblicità a tutto faceva pensare tranne al fatto che seguendo quel corso si sarebbe poi parlato un inglese perfetto.

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Ricordo che allora, più o meno adolescente, mi dannavo tremendamente davanti a questa esaltazione di una pronuncia davvero sgradevole e marcatamente italiana di una lingua che italiano non era. Non mi ero ancora resa conto che, in realtà, quello sarebbe stato poi lo standard nazionale di un inglese che nei curricula viene sempre associato ad un livello avanzato (vedo C1[1] come se piovessero…).

Il problema è che la pronuncia da Totò e Peppino è solo la punta di un gigantesco iceberg di errori (grammaticali, sintattici, lessicali…) a cui pochi sembrano dare la giusta importanza. Ovviamente la questione non è solo italiana, ma copre buona parte del territorio europeo (fatta eccezione per pochi paesi nordici) e si estende su tutti i continenti.

Probabilmente a supportare questa trascuratezza nell’esprimersi in un’altra lingua vi è il fatto che “tanto si capisce cosa voglio dire”, con buona pace dei linguisti e dei madrelingua.

20181002_132036.jpgVi è, inoltre, un uso sconsiderato di programmi di traduzione online, primo fra tutti il famigerato Google Translator.

Lungi da me il voler criticare questo strumento, vorrei solo mettere in guardia chi non ha grande dimestichezza con le traduzioni e, in generale, con le lingue straniere.

Il traduttore di Google, infatti, può essere un valido aiuto nella traduzione a mio avviso solo per quelli che hanno una buona conoscenza della lingua meta (la lingua in cui si vuole tradurre il testo). E non perché ti dia la soluzione esatta, ma perché, a volte, quando ti trovi bloccato in un’odiosa aridità mentale dalla quale non riesci ad uscire neanche dopo tre caffè, un giro in bici, una lettura stimolante ed un cannolo (il mio sogno è che un giorno i cannoli siciliani vengano scientificamente riconosciuti come validi stimolanti cerebrali), Google Translator (suo malgrado) potrebbe fartela venire in mente.

E nel caso in cui proprio non riusciate a tradurre un testo, rasserenatevi. Avete la soluzione a portata di internet, telefono, e-mail: esistono centinaia di migliaia di traduttori professionisti specializzati proprio in quel campo che serve a voi (fosse anche la depilazione laser della zona dietro il ginocchio).

Affidatevi a chi questo mestiere lo fa con voglia e passione (e guardate i film in lingua originale che vi fa bene!).

[1] Secondo lo schema di valutazione del Quadro comune europeo di riferimento, per il quale il livello di conoscenza di una lingua straniera può essere suddiviso in sei gruppi: A1, A2, B1, B2, C1, C2). v. https://it.wikipedia.org/wiki/Quadro_comune_europeo_di_riferimento_per_la_conoscenza_delle_lingue
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“Sólo tienes que copiarlo en inglés”…

… ovvero della svalutazione della traduzione.

I primi certificati di lingua, una Laurea, un Master, anni di esperienza in tre continenti, per poi sentirti dire un giorno “Devi solo copiarlo in inglese”. Il tutto mentre, alla guida di un dipartimento di otto persone (traduttori e interpreti) di una clinica privata, stai cercando di far quadrare un cerchio deforme consistente in: consegne al limite della scadenza, colleghi con manie di persecuzione, infermiere che credono nel dono dell’ubiquità (la tua, si intende) e medici sedicenti poliglotti che, però, giusto quel giorno (e circa altri 360 giorni all’anno) hanno assolutamente bisogno di una traduzione urgente per il giorno stesso.

La frase in questione venne pronunciata da una, peraltro molto gentile, impiegata della segreteria medica che entrò in ufficio con un testo da tradurre in mano. Tradurre, appunto. E altro non era che la risposta a un paio di domande da me poste, cioè: quanto è lungo il testo? Per quando vi serve?

Tutto avrei immaginato, tranne di sentirmi svelare, proprio quella mattina, apparentemente molto simile alle altre, il segreto dell’essenza del tradurre.

Al di là del desiderio, dettato dall’ira, di tirarle addosso i suoi fogli, insieme a quelli dei medici di cui sopra e (perché no?) qualche sedia, quella sua risposta mi portò, ovviamente, ad un forte senso di frustrazione, ma anche alla consapevolezza che agli occhi di molti, moltissimi, la traduzione altro non è che un mero atto “meccanico”: leggi in una lingua, scrivi in un’altra.

Cosa ci sarà mai, dunque, di così complicato da tenerti ore su una stessa parola, da farti venire crisi d’identità per non essere capace di trovare il termine giusto nella tua stessa lingua materna, da farti dubitare di tutto il tuo percorso accademico (E se mi fossi dedicata alla biologia?) ? Cosa?

“Sono perfettamente consapevole dell’arte, della diligenza, dell’intelligenza e della comprensione necessarie per essere un buon traduttore” scriveva Martin Lutero nella sua “Epistola sull’arte del tradurre” del 1530.

E qualche secolo dopo Umberto Eco si chiedeva: Che cosa vuol dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire cosa significhi “dire la stessa cosa”, e non lo sappiamo bene per tutte quelle operazioni che chiamiamo parafrasi, definizione, spiegazione, riformulazione, per non parlare delle pretese sostituzioni sinonimiche. In secondo luogo perché, davanti a un testo da tradurre, non sappiamo quale sia la cosa. Infine, in certi casi, è persino dubbio che cosa voglia dire dire” (“Dire quasi la stessa cosa – Esperienze di traduzione”, 2003).

Le citazioni che mettono in evidenza le difficoltà quotidiane e costanti cui fa fronte un traduttore sono innumerevoli (per fortuna!).

Ciò non toglie che all’atto pratico ci si stupisca ancora che esista un percorso di studi specifico per la traduzione, che i traduttori vogliano lavorare in media 8 ore al giorno (possibilmente non tra le 2 e le 5 del mattino) e guadagnarci anche qualcosa.

L’uso di Google Translator e l’inglese ormai apparentemente conosciuto da tutti (God save the Queen and her language!) mettono sulla frustrazione il carico a briscola. Ma di questo parlerò nel prossimo articolo.

 Per chiudere, ritorno ad Umberto Eco, perché tradurre, comunque, resta per me uno dei lavori più belli.

“Tradurre infatti vuol dire starsene a casa, al caldo o al fresco, e lavorare in pantofole, oltretutto imparando un sacco di cose.” (“Numero Zero”, 2015)