… ovvero della svalutazione della traduzione.
I primi certificati di lingua, una Laurea, un Master, anni di esperienza in tre continenti, per poi sentirti dire un giorno “Devi solo copiarlo in inglese”. Il tutto mentre, alla guida di un dipartimento di otto persone (traduttori e interpreti) di una clinica privata, stai cercando di far quadrare un cerchio deforme consistente in: consegne al limite della scadenza, colleghi con manie di persecuzione, infermiere che credono nel dono dell’ubiquità (la tua, si intende) e medici sedicenti poliglotti che, però, giusto quel giorno (e circa altri 360 giorni all’anno) hanno assolutamente bisogno di una traduzione urgente per il giorno stesso.
La frase in questione venne pronunciata da una, peraltro molto gentile, impiegata della segreteria medica che entrò in ufficio con un testo da tradurre in mano. Tradurre, appunto. E altro non era che la risposta a un paio di domande da me poste, cioè: quanto è lungo il testo? Per quando vi serve?
Tutto avrei immaginato, tranne di sentirmi svelare, proprio quella mattina, apparentemente molto simile alle altre, il segreto dell’essenza del tradurre.
Al di là del desiderio, dettato dall’ira, di tirarle addosso i suoi fogli, insieme a quelli dei medici di cui sopra e (perché no?) qualche sedia, quella sua risposta mi portò, ovviamente, ad un forte senso di frustrazione, ma anche alla consapevolezza che agli occhi di molti, moltissimi, la traduzione altro non è che un mero atto “meccanico”: leggi in una lingua, scrivi in un’altra.
Cosa ci sarà mai, dunque, di così complicato da tenerti ore su una stessa parola, da farti venire crisi d’identità per non essere capace di trovare il termine giusto nella tua stessa lingua materna, da farti dubitare di tutto il tuo percorso accademico (E se mi fossi dedicata alla biologia?) ? Cosa?
“Sono perfettamente consapevole dell’arte, della diligenza, dell’intelligenza e della comprensione necessarie per essere un buon traduttore” scriveva Martin Lutero nella sua “Epistola sull’arte del tradurre” del 1530.
E qualche secolo dopo Umberto Eco si chiedeva: “Che cosa vuol dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire cosa significhi “dire la stessa cosa”, e non lo sappiamo bene per tutte quelle operazioni che chiamiamo parafrasi, definizione, spiegazione, riformulazione, per non parlare delle pretese sostituzioni sinonimiche. In secondo luogo perché, davanti a un testo da tradurre, non sappiamo quale sia la cosa. Infine, in certi casi, è persino dubbio che cosa voglia dire dire” (“Dire quasi la stessa cosa – Esperienze di traduzione”, 2003).
Le citazioni che mettono in evidenza le difficoltà quotidiane e costanti cui fa fronte un traduttore sono innumerevoli (per fortuna!).
Ciò non toglie che all’atto pratico ci si stupisca ancora che esista un percorso di studi specifico per la traduzione, che i traduttori vogliano lavorare in media 8 ore al giorno (possibilmente non tra le 2 e le 5 del mattino) e guadagnarci anche qualcosa.
L’uso di Google Translator e l’inglese ormai apparentemente conosciuto da tutti (God save the Queen and her language!) mettono sulla frustrazione il carico a briscola. Ma di questo parlerò nel prossimo articolo.
Per chiudere, ritorno ad Umberto Eco, perché tradurre, comunque, resta per me uno dei lavori più belli.
“Tradurre infatti vuol dire starsene a casa, al caldo o al fresco, e lavorare in pantofole, oltretutto imparando un sacco di cose.” (“Numero Zero”, 2015)